IL SACERDOTE E I FRATELLI CECCHIN

IL SACERDOTE E I FRATELLI CECCHIN

Testo di Ester Manitto

Luogo: 1 via Costanzo Cecchin a Cadibona

Come già in passato Cadibona anche in tempo di guerra era un nodo importante per i collegamenti. Dopo l’8 settembre 1943 numerosi soldati presidiavano la zona. Soprattutto militari tedeschi e, nella frazione Torre, anche i soldati della Divisione San Marco, guidati dal capitano Ildefonso Secchi.

 Nello stesso periodo i partigiani iniziarono a operare nei dintorni del paese.

Scaramucce, scontri a fuoco, rastrellamenti. Il 17 agosto 1944, i San Marco catturarono due partigiani di Montemoro: i fratelli Cecchin.

Uno, Amanzio, era sposato e la famiglia viveva nella frazione Abragni; l’altro, Costanzo, era un fuoriuscito: originario del bergamasco, conosceva sei lingue e aveva combattuto nella guerra civile spagnola con i garibaldini italiani che difendevano la repubblica.

Dopo la vittoria franchista Costanzo, fuggì in Francia e con l’8 settembre era ritornato in Italia aggregandosi ai partigiani. La sua ferma convinzione che l’unica via per la libertà fosse la Resistenza lo aveva sempre portato a rischiare molto.

Nella notte verso le 2 o le 3, don Carlo Curioni, l’allora parroco di Cadibona, fu chiamato dal tenente Giorgio Giorgi per assistere i due partigiani che dovevano essere fucilati.

“Vedendomi – racconterà poi il sacerdote – capirono subito che per loro era finita. Erano stati infatti condannati dal tribunale militare e l’ordine che avevo avuto era quello di prepararli alla morte. Tutti e due erano disperati e il mio sforzo per confortarli era relativo. Con le buone riuscii a prepararli un poco. Continuavano a dire di non voler morire. Tentai, per dovere, di chiedere la grazia. Non riuscii nemmeno a dirlo perché quelli del comando mi risposero: “Non c’è niente da fare”. A quel punto pregammo un po’ insieme”.

Verso le 6 del mattino vennero condotti in campagna, a duecento metri dal paese, don Curioni andò con loro. I San Marco misero i due fratelli di fronte al plotone, uno da una parte, uno dall’altra in una “fascia” che era posta nel pendio del monte. Il plotone era composto da 6 o 7 uomini: vi erano diversi ufficiali, mentre i soldati non erano molti. Il plotone di esecuzione aveva il fucile a “pied’arm”.

Don Curioni andava a confortare ora l’uno ora l’altro; mentre gli ufficiali si attardavano per stabilire chi di loro dovesse dare l’ordine di far fuoco. Ad un certo punto egli si avvicinò a Amanzio e appoggiò la mano sinistra sul suo braccio in segno di conforto, ma Amanzio, gli disse: “Mi lasci andare”. Il sacerdote ritirò la mano e si accorse, solo in quel momento, che i soldati erano distratti e che gli ufficiali stavano chiacchierando fra loro.

Approfittando della situazione Amanzio fuggì verso sinistra, dove a pochi metri iniziava il pendio della collina.

Quando i soldati si accorsero della fuga oramai era già al fondo della valle. Spararono, ma venne appena sfiorato.

Costanzo, invece, non era riuscito a fuggire e quindi un tenente ordinò subito ai soldati di schierarsi per la fucilazione.

Un soldato, il più giovane del plotone disse: “Io, signor tenente, non mi sento di sparare ad un mio fratello”. “Va fuori!” gli rispose l’ufficiale prendendo lui stesso il suo posto. Prima ancora che venisse dato l’ordine un altro soldato disse: “Signor tenente, non mi faccia fare una cosa simile, non me la sento!”. “Sta lì, e fai il tuo dovere!” fu la risposta.

Dopo pochi istanti fu fatto fuoco sul condannato. Prima dei colpi, disse: “Povera mia mamma”. I soldati piangevano. Don Curioni lo seppellì nel cimitero spiegando alla gente, che chiedeva notizie, ciò che era realmente accaduto, ma con molto timore.

La sera stessa della vicenda, il parroco ricevette un biglietto da un contadino, scritto da Amanzio: “Sono salvo e la ringrazio”. Infatti, era riuscito a raggiungere i partigiani e a riprendere parte alla lotta.

Dopo la liberazione, partigiano e sacerdote si rividero e strinsero una grande amicizia.

In seguito Amanzio si ammalò e trascorse i suoi ultimi giorni in manicomio a Cogoleto. Il trauma vissuto fu per lui troppo forte e mai riuscì a riprendersi dal dolore della perdita del fratello.

Oggi in memoria di Costanzo Cecchin, una via di Cadibona porta il suo nome. La targa è affissa sul muro della scarpata della Torre.

Per non dimenticare.